Il Minotauro a Lucca

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Se non lo avessi visto con i miei occhi non ci crederei, eppure il Minotauro è di casa a Lucca. Proprio così, la mostruosa creatura posta da Minosse a guardia del suo temibile labirinto, nell’isola di Creta, ha a buon diritto anche la cittadinanza lucchese.

Compare, infatti, nella storia della nostra città per ben due volte, a quasi duemila anni di distanza. Riaffiora nei secoli come un filo rosso carsico, resistendo indenne a mutamenti di religioni e culture. Il Minotauro è una figura millenaria che conserva immutata la propria carica simbolica… persino in una città, come Lucca, che apparentemente niente condivide con un mito così esotico, scopriamo perché.

La prima volta che ho incontrato il Minotauro a Lucca è stato molti anni fa.
Alle elementari, la maestra di storia portò la mia classe al Museo Nazionale di Villa Guinigi: fu lì che lo vidi e, da amante della mitologia greca e latina quale già ero, restai incredulo da quella scoperta. Ritrovarsi il famoso mostro cretese a un passo da casa, quando lo immaginavi relegato nel lontanissimo palazzo greco, fu una vera sorpresa. Come era finito qui?

Il Minotauro riemerge dal fango

Beh, all’epoca non sapevo di avere di fronte a me una kelebe del V secolo a.C., scoperta sul finire dell’Ottocento nel fango dell’ex alveo di Bientina, a Rio Ralletta di Capannori. Una kelebe è un prezioso vaso da mensa prodotto all’epoca in Grecia e che si poteva trovare sulle tavole imbandite dei ricchi di tutto il Mediterraneo; un “cratere” dal bacino ampio e contraddistinto dai tipici manici “a colonnetta”.

Capitava spesso che questi bei vasi fossero dipinti con scene mitologiche, ed ecco che il vaso lucchese mostrava fiero la scena clou del mito cretese. Teseo sta menando il fendente mortale nel petto del Minotauro, mentre con la mano lo afferra per il corno destro: è l’attimo esatto della sconfitta del temibile mostro mezzo uomo e mezzo toro. Sulle spalle dell’eroe ateniese il petaso, il cappello a falde largo tipico dei viandanti – e dei messaggeri divini come Hermes.

Il vaso apparteneva alla sepoltura di una ricca donna etrusca e fu trovato con un corredo di tutto rispetto, nei quali spiccano sublimi gioielli in oro “a bauletto” decorati con particolari altrettanto mostruosi al pari del Minotauro: facce di gorgoni che ostentano la tipica e beffarda linguaccia.

In questo cratere erano custodite le ceneri della donna, cioè fu usato come ossuario. Capiamo, quindi, facilmente che il valore simbolico della scena che ritrae la sconfitta del Minotauro doveva essere davvero molto importante, se a un contenitore del genere si affidavano per l’eternità i resti mortali di una donna di alto rango.

Oggi sappiamo persino da chi fu dipinto quel vaso: il “Pittore del Porco”, così chiamato perché a lui è attribuito anche un altro oggetto simile, con decorazioni che rappresentano Odisseo insieme a Eumeo fra i porci.

Il Minotauro nel labirinto

La seconda volta in cui mi sono imbattuto nel Minotauro a Lucca, seppure indirettamente, è stato parecchi anni dopo. Il labirinto di San Martino lo conoscevo da sempre – un lucchese ci prende confidenza fin da piccolo, lo dà per scontato come l’aria che respira – ma soltanto al liceo fui in grado di decifrare la didascalia in quel latino medioevale un po’ maldestro.

Hic quem creticus edit Dedalus est, labirinthus de q[u]o nullus vadere quivit qui fuit intus ni Theseus gratis Adriane [Ariadne] stamine iutus.

“Questo è il labirinto del cretese Dedalo, dal quale nessuno poté uscire a eccezione di Teseo, grazie al filo di Arianna.”

Di fronte a quella “spiegazione” restai doppiamente stupefatto. All’ingresso del Duomo di San Martino si trova il labirinto del Minotauro: un’immagine che più “pagana” non si può a guardia del tempio cristiano più importante della cristianissima Lucca (!).

Ecco che, dal V secolo a.C. al XIII secolo d.C., il Minotauro il labirinto e Teseo affiorano di nuovo nella storia della mia città. È evidente che deve esserci un motivo: perché i miei concittadini, prima etruschi e poi medievali, ritenevano così importante quel mito? Come era possibile che il mostro mezzo uomo e mezzo toro, e la sua lotta con l’eroe greco Teseo, convivesse con i simboli del cristianesimo?

Il labirinto di Lucca

Per capirlo dobbiamo ripercorrere la storia del più celebre simbolo lucchese, appunto il labirinto di San Martino.

Si tratta di un labirinto dallo schema molto noto, il cosiddetto “modello Chartres”. L’archetipo, cioè il modello originario è appunto quello della cattedrale di Chartres, incastonato nel pavimento della navata centrale, così grande che lo si può percorrere a piedi: un enorme cerchio le cui spire disegnano una croce, chiara allusione al cammino del Redentore.

A copia del labirinto francese, nel corso del medioevo ne sono stati replicati tanti altri come quello lucchese e, dato comune a tutti, si trovano nei pressi di chiese o altri luoghi religiosi lungo la Via Francigena; non deve essere, non può essere un caso.

Il labirinto dei pellegrini

Il labirinto di Lucca è quindi in buona compagnia: oltre a Chartres, lo troviamo nelle chiese di San Pietro a Pontremoli (Massa), Santa Sinforosa a Tossiccia (Teramo), San Francesco di Alatri (Frosinone). I bombardamenti della seconda guerra mondiale hanno irrimediabilmente cancellato i labirinti di San Savino a Piacenza, San Caprasio di Aulla, Santa Maria in Trastevere e Santa Maria in Aquiro a Roma.

Dato che tutti si trovano, come dicevamo, sulla Via Francigena, si crede quindi che questi labirinti fossero prima di tutto una specie di “segnale stradale” per i pellegrini che la percorrevano: al pari della conchiglia di San Jacopo, il labirinto avrebbe aiutato i viandanti a individuare la strada giusta e, non di meno, gli hospitales. Ma non è tutto, non può essere tutto qui.

Il labirinto, si sa, è una voragine simbolica aperta sui millenni più remoti della nostra storia.
Partendo a ritroso dal “modello Chartes” e i labirinti del gotico francese, prima attraverso i labirinti di epoca romana e poi quelli della protostoria mediterranea, passando per la cultura minoica e quella danubiana di Vinca, arriviamo ai più antichi segni del Neolitico e, c’è chi dice, del Paleolitico Superiore.

Trentamila anni di storia, tanto lungo sembra essere il cammino di questo simbolo; un vero “archetipo” culturale che ci portiamo ormai sottopelle, nel nostro DNA culturale più profondo. Come è possibile che sia sopravvissuto così a lungo nella nostra storia? Che cosa rappresenta, di così importante per l’essere umano?  

Il labirinto come simbolo del male

Che il labirinto simboleggi un “mondo occulto” lo si percepisce a pelle.

Il sentimento di sgomento che ci coglie al suo ingresso, e la vertigine che proviamo al suo interno; la leggenda di Dedalo e del Minotauro; la lotta all’ultimo sangue tra la bestia e Teseo; il ritorno impossibile senza filo di Arianna… beh, non è un luogo per tutti, il labirinto.

Per il mondo cristiano, il labirinto è la metafora del peccato, del mondo terreno in cui è fin troppo facile smarrire la propria anima.

Il labirinto lucchese non è l’unico a narrarci in modo diretto le vicende di Teseo e del mostro. Altri di epoca medievale come il nostro, persino, raffigurano la bestia al centro, proprio laddove termina la via – l’unica percorribile.

Il Minotauro simboleggia il diavolo, la perdizione del corpo, la morte eterna dello spirito. Perdersi nel labirinto e non fare ritorno significa smarrire la fede, la speranza di una rinascita in Cristo. E, continuando in questa metafora che è un vero cortocircuito tra sacro e profano, Teseo è il Salvatore, l’uomo-dio in grado di sconfiggere il Male e salvare la nostra anima.

Più misteriosa è la figura di Arianna, eroina-aiutante del Salvatore; chi sarà la sua controparte cristiana? Che cosa rappresenterà il suo “filo”?

Il labirinto come simbolo solare

Con la vittoria di Teseo sul Minotauro, il labirinto non è soltanto simbolo di perdizione e morte. È anche il suo contrario, cioè Luce: attraverso le sue spire è possibile redimersi, rinascere a nuova vita.

Il riferimento solare dei labirinti lungo la Via Francigena, sotteso a tutti, diventa palese in alcuni.

Ad esempio quello nella chiesa di Santa Sinforosa a Tossiccia, non lontano da Teramo. Alla sua destra si trova un “fiore della vita” con i petali orientati secondo i punti di alba e tramonto negli equinozi e nei solstizi.
Ma anche nel labirinto di Lucca: la didascalia, lo abbiamo visto, ci dice che qualcuno è riuscito a tornare indenne da lì. Teseo, con l’aiuto “filo di Arianna”: metafora, ancora comprensibile per un uomo del XIII secolo, della “luce” di Cristo. E, non è un caso che l’ingresso del labirinto lucchese sia rivolto a ovest: là “muore” il Sole e, simbolicamente, senza il sacrificio di Cristo ovvero la redenzione della fede, là moriremmo anche noi.

Ecco che, allora, iniziamo a capire che cosa simboleggi anche “il filo di Arianna”.

Il pellegrino che si appresta a percorre il labirinto è come Dante all’ingresso della “selva oscura”: è dal punto più buio che iniziamo a muoverci verso l’Oriente e la luce, verso Dio. Ciò che rende possibile questo cammino di redenzione, di ritorno alla Luce, è proprio il “raggio di Sole” della fede, il filo rosso che illumina i nostri passi nel buio del labirinto.

Lucca città di luce

E allora sembra quasi una beffarda coincidenza, che il nome della città di Lucca possa nascondere nella sua più profonda radice proprio la luce. Così come un’altra “coincidenza” è il fatto che il mito di Teseo e il Minotauro sia ricordato proprio qui, nella chiesa dedicata al santo vescovo di Tours, Martino, figura dietro alla quale si nasconde una più antica divinità di origine “solare”, il celtico Lugos – anche questo, vero e proprio nome di “luce”.

Dal labirinto della cattedrale lucchese al vaso riemerso dal fango di Capannori, dunque, il filo rosso della “luce” si incarna nello stesso mito millenario, simbolo dell’eterna lotta tra la vita e la morte e, ancor più, dell’umana ambizione all’eterno.

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